
Ci sono storie che ci restano addosso perché parlano di noi, delle nostre paure più profonde. La morte di Iryna Zarutska non racconta soltanto un delitto, ma il vuoto lasciato dall’inazione di chi ha assistito. In quel vagone non c’era solo una vittima e un aggressore: c’era una folla di sguardi immobili, incapaci di trasformarsi in azione. È lì che si annida la domanda più difficile: cosa accade a ciascuno di noi quando di fronte a un’ingiustizia restiamo fermi ad osservare? Questa storia solleva domande scomode, che vanno oltre la cronaca nera e ci costringono a guardare dentro i meccanismi psicologici e sociali che, spesso inconsapevolmente, condizionano il nostro comportamento collettivo.
La vicenda di Iryna Zarutska
Iryna aveva solo 23 anni. Era arrivata negli Stati Uniti in fuga dalla guerra, lavorava in una pizzeria e quella sera stava semplicemente tornando a casa, ancora con la divisa addosso. Il 22 agosto 2025, su un treno della Carolina del Nord, un uomo l’ha aggredita e colpita al collo con un coltellino. Le telecamere di sorveglianza hanno registrato ogni istante.
Ma a scuotere l’opinione pubblica non è stata soltanto la violenza del gesto. È stata l’immobilità di chi era presente: passeggeri che hanno assistito senza intervenire, alcuni che si sono addirittura allontanati. Nessuno si è opposto, nessuno ha soccorso. La ragazza è morta in pochi istanti, in una tragica solitudine collettivamente costruita. Ed è proprio lì, in quello spazio di immobilità collettiva, che nasce la domanda più scomoda: cosa ci trattiene dal muoverci quando l’ingiustizia accade davanti a noi?
Quando la responsabilità si frantuma
La psicologia sociale ha studiato a lungo questo paradosso. Già nel 1964, il caso di Kitty Genovese a New York aveva sollevato scalpore: una giovane uccisa sotto lo sguardo di decine di testimoni, nessuno dei quali intervenne. Da lì, gli psicologi Bibb Latané e John Darley hanno coniato un concetto potente: la diffusione di responsabilità.
Più testimoni ci sono, meno ciascuno sente di dover agire, al contrario se siamo soli, il compito ci ricade addosso in modo inequivocabile. Se siamo in molti, scatta il pensiero sottile: “qualcun altro farà qualcosa”. Ma quel pensiero, moltiplicato per decine di persone, genera vuoto e inazione.
Diversi studi scientifici lo dimostrano: quando un individuo percepisce di essere l’unico a poter aiutare, la risposta è quasi automatica. Ma se la stessa scena si svolge davanti a un gruppo, le probabilità di intervento precipitano. Non è cattiveria, è un meccanismo invisibile che smonta la responsabilità personale.
L’effetto spettatore: un paradosso quotidiano
Accanto a questo fenomeno può presentarsi ciò che viene chiamato “effetto spettatore”: più persone assistono a un’emergenza, minore è la probabilità che qualcuno agisca. Le ragioni sono diverse e profondamente umane:
- Ignoranza pluralistica: ci guardiamo intorno per capire come interpretare la situazione. Se nessuno si muove, concludiamo che forse non è grave.
- Inibizione sociale: la paura di sbagliare o di essere giudicati ci blocca più del pericolo stesso.
- Ansia e timore: di fronte a una minaccia reale, spesso il corpo sceglie la paralisi.
Questi meccanismi non assolvono, ma spiegano. Non è indifferenza, è una trappola psicologica che ci immobilizza.
Pensiamo che tutto questo riguardi eventi eccezionali, lontani da noi. Ma l’effetto spettatore si manifesta ogni giorno, in forme meno eclatanti: un insulto in strada, un compagno di scuola preso di mira, un passante che si accascia per un malore. In tutti questi casi la differenza la fa la consapevolezza. Le ricerche mostrano che aiutiamo di più se ci sentiamo competenti, se percepiamo che la responsabilità ci appartiene. Non serve essere eroi: basta riconoscere che, se non facciamo nulla, forse nessuno lo farà.
Rompere l’immobilità
Come si interrompe questa catena di immobilità? In questi casi scelte semplici possono fare un’enorme differenza. La prima è ricordarsi che ogni azione conta, anche la più piccola: una telefonata ai soccorsi, uno sguardo di sostegno alla vittima, un tentativo di distrarre l’aggressore. Sono passi che sembrano minimi ma in realtà hanno il potere di cambiare il corso degli eventi.
Agire subito è fondamentale, senza aspettare di capire cosa faranno gli altri. Perché ogni secondo di esitazione rischia di rafforzare il silenzio collettivo. Per facilitare il senso di competenza in questi momenti, può aiutare molto avere già una preparazione di base: un corso di primo soccorso, un training specifico, qualsiasi esperienza che ci dia la sicurezza di sapere come muoverci.
Ma, più di tutto, si tratta di scegliere consapevolmente di non attendere che “qualcun altro” faccia qualcosa. Decidere che potremmo essere proprio noi quella persona capace di rompere l’immobilità. Perché a volte basta davvero un solo testimone consapevole per innescare un movimento, per trasformare la passività di molti in un atto di responsabilità condivisa.
Lo specchio che ci lascia Iryna
Iryna non c’è più, ma la sua storia ci costringe a guardarci dentro. Non possiamo cambiare ciò che è accaduto su quel treno, ma possiamo cambiare la nostra risposta futura. Perché se la responsabilità si dissolve quando siamo in tanti, anche il coraggio può diffondersi nello stesso modo. Basta che qualcuno rompa il silenzio, per primo. Basta che sia io. O tu. O chiunque decida che osservare non è abbastanza.
Dott.ssa Chiara Affaitati
Bibliografia
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